Martedi 22 luglio 2014
Quali strade verso una cura
La ricerca di una cura per l’HIV è uno dei temi centrali della XX Conferenza Internazionale sull’AIDS (AIDS 2014), dove sono state discusse varie strategie terapeutiche e le possibili future strade per la ricerca.Si sta prendendo coscienza del fatto che la somministrazione precoce di farmaci antiretroviralinon è sufficiente per giungere a una cura.Alla Conferenza sono stati riferiti gli ultimi sviluppi del caso della cosiddetta “bambina del Mississippi”: la piccola mostra di nuovo segni di replicazione dell’HIV nel sangue, dopo che per due anni il virus era rimasto irrilevabile senza bisogno di farmaci.I ricercatori sostengono però di aver comunque tratto preziosi insegnamenti da questo caso, soprattutto circa la necessità di migliorare i test attualmente disponibili per rilevare la presenza dell’HIV nell’organismo e di elaborare nuove strategie per eliminare i reservoir più ostinati di cellule infette.Alla Conferenza si è inoltre parlato dell’impiego di un farmaco antitumorale all’interno di una terapia volta a stimolare le cellule infette latenti per poi eliminarle con gli antiretrovirali (un tipo di strategia terapeutica ormai nota anche con il nome inglese di “kick and kill”).Ole Schmeltz Søgaard del Policlinico Universitario di Aarhus, in Danimarca, durante il suo intervento ad AIDS 2014. Foto: International AIDS Society/Steve ForrestUn’équipe di medici danesi ha presentato il caso di sei pazienti che assumevano la ART a lungo termine a cui è stato somministrato il chemioterapico romidepsin, un farmaco che sembra in grado di stanare e “risvegliare” le cellule dormienti, comprese quelle infettate dall’HIV.La strategia sembra, almeno in parte, aver raggiunto l’obiettivo; i ricercatori, tuttavia, sono dell’avviso che il trattamento non abbia avuto un impatto significativo sulle dimensioni del reservoir virale. Ciò nonostante, secondo il professor Steven Deeks questo studio ha il merito di dimostrare che è possibile individuare il reservoir nascosto e riattivarlo e rappresenta pertanto “il singolo, più importante passo avanti di questo convegno che avrà un’eco enorme sul futuro della ricerca”, come ha dichiarato in una conferenza stampa.Sembra dunque che né la somministrazione precoce di antiretrovirali né la stimolazione delle cellule dormienti consentano di giungere a una ‘cura funzionale’, ossia la soppressione dell’HIV senza l’aiuto degli antiretrovirali.Alla Conferenza sono stati presentati altri due approcci. Un’équipe di ricercatori australiani ha introdotto nelle cellule umane dei geni artificiali in grado di generare inibitori dell’ingresso virale: le cellule divengono così meno vulnerabili all’attacco dell’HIV. Un altro team australiano ha invece utilizzato frammenti genici per mantenere le cellule infette latenti in uno stato di blocco, resistenti anche a una forte stimolazione immunitaria, allo scopo di isolare il reservoir e riuscire comunque a tenere a bada l’HIV senza l’impiego di farmaci.In quale direzione muoversi adesso? Secondo le previsioni di un esperto presente alla Conferenza, la ricerca di una cura passerà attraverso lo sviluppo di vaccini terapeutici o immunoterapie.
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PREP, L'IMPORTANZA DELL'ADERENZA
L’efficacia della profilassi pre-esposizione (PrEP) dipende in larga misura dall’aderenza: è quanto emerge dai risultati di un’estensione dello studio iPrEx.Si tratta di un’estensione in aperto dello studio iPrEx, in cui sono stati messi a confronto i tassi di infezione tra individui che prendevano i farmaci e altri che invece sceglievano di non farlo, allo scopo di valutare l’efficacia della PrEP in soggetti consapevoli di assumerla.Per lo studio sono stati reclutati complessivamente 1225 tra uomini che fanno sesso con altri uomini (MSM) e donne transgender; un totale di 847 dei partecipanti hanno assunto i farmaci.Il follow up ha avuto una durata di 72 settimane, al termine delle quali la PrEP si è mostrata in grado di dimezzare il rischio di acquisizione dell’HIV.L’efficacia preventiva del trattamento, tuttavia, è risultata strettamente correlata all’aderenza.Non sono state rilevate diminuzioni significative del rischio di infezione nei partecipanti che hanno assunto meno di due dosi alla settimana, mentre in coloro che hanno assunto dalle due alle tre dosi settimanali il rischio si è ridotto dell’84%. Non è stata registrata nessuna nuova infezione in un sottogruppo che ha assunto quattro o più dosi settimanali, ma soltanto un terzo dei partecipanti è riuscito a mantenere un tale livello di aderenza.È emersa una stretta correlazione tra livello di aderenza ed età: le probabilità di trovare livelli rilevabili di farmaci nel sangue erano due o tre volte maggiori nei trenta- e quarantenni rispetto ai partecipanti più giovani.Gli autori hanno inoltre calcolato che solo il 39% dei partecipanti ad alto rischio continuava a prendere i farmaci in dosi sufficienti a proteggerli dall’HIV a tre mesi dall’inizio dello studio.Nel complesso, questi risultati attestano che il ricorso alla profilassi pre-esposizione è in grado di ridurre in maniera significativa il rischio di infezione nelle popolazioni ad alto rischio, ma l’aderenza è un fattore chiave per l’efficacia del trattamento; e un dato emerso dallo studio è che anche persone con un considerevole rischio di infezione spesso non sono sufficientemente motivate ad assumere la PrEP in modo corretto e costante.Alla Conferenza sono stati presentati anche i risultati di uno studio sull’uso intermittente della profilassi pre-esposizione in maschi omosessuali condotto in Francia e Quebec, Canada, da cui risulta che circa il 75-80% dei partecipanti hanno correttamente assunto la PrEP in occasione del loro ultimo rapporto sessuale. Si tratta dello studio denominato IPERGAY, che indaga l’efficacia della somministrazione della PrEP in un lasso di tempo mirato e circoscritto (una dose prima del rapporto e altre due rispettivamente 24 e 48 ore dopo). È una strategia volta a contenere i costi e a limitare l’assunzione non necessaria dei farmaci. L’uso intermittente di PrEP per i rapporti programmati può risultare più gestibile per alcune persone, ma la sua efficacia in termini di prevenzione non è appurata. I risultati definitivi dello studio sono attesi per la fine del 2016.In un nuovo documento orientativo pubblicato questo mese, l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda il ricorso alla PrEP come opzione preventiva complementare per tutti gli MSM sieronegativi ad alto rischio di infezione. Nel documento viene sottolineato che la PrEP deve far parte di un “pacchetto completo di servizi per la prevenzione” che comprenda anche l’offerta di preservativi e lubrificanti, di screening delle MST e presa in cura di coloro che risultano positivi, del test per l’HIV, di servizi di counseling e interventi mirati ai consumatori di sostanze nocive. L’OMS raccomanda inoltre che la PrEP venga offerta come misura di prevenzione aggiuntiva a tutti i partner sieronegativi in coppie sierodiscordanti.
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Tassi di mortalità per AIDS tra gli adolescenti
Foto UNICEF.Secondo i dati presentati alla Conferenza Internazionale sull’AIDS, si è registrato un incremento dei tassi di decessi AIDS-correlati tra gli adolescenti (15-19 anni), in particolare nei maschi.L’avvento della terapia antiretrovirale (ART) ha segnato una netta diminuzione di morbilità e mortalità correlate all’HIV.Tuttavia, un’analisi di dati provenienti dall’Africa sub-sahariana mostra adesso che la situazione sta effettivamente migliorando per i pazienti pediatrici e per gli adulti, ma anche che è in atto una recrudescenza della mortalità nella fascia di età compresa tra i 15 e i 19 anni.Tra il 2005 e il 2012, i tassi di mortalità AIDS-correlata tra gli adolescenti sono aumentati del 50%, dimostrandosi particolarmente elevati tra i maschi: nella regione sub-sahariana, infatti, il loro rischio di morte è risultato doppio rispetto a quello delle ragazze, e in Sudafrica addirittura triplo.Sono dati allarmanti, che denunciano le enormi difficoltà della transizione dalle cure pediatriche ai servizi per adulti ed evidenziano il bisogno di dare priorità alle esigenze degli adolescenti nell’ambito dei programmi contro l’HIV/AIDS.
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Combattere la povertà per ridurre il rischio HIV negli adolescenti
La dott.ssa Lucie Cluver dell’Università di Oxford. Foto
www.novartisfoundation.org.Da uno studio condotto in Sudafrica emerge che una combinazione di interventi come l’offerta di aiuti in contanti, di pasti nelle scuole e di sostegno psicosociale può dimezzare il rischio di contrarre l’infezione da HIV negli adolescenti.Numerosi studi comprovano la correlazione tra povertà e aumento del rischio HIV per gli adolescenti.Un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford ha dunque deciso di verificare se l’attuazione di interventi contro la povertà possa determinare un calo dei comportamenti a rischio.A questo scopo gli studiosi hanno condotto uno studio su 3515 giovani di età compresa tra i 10 e i 18 anni e di ambo i sessi, che vivono in una regione ad elevatissima prevalenza di HIV (circa il 30%).I dati relativi ai comportamenti a rischio (dai rapporti sessuali non protetti, a pagamento, con partner più grandi o con partner multipli fino al sesso sotto l’effetto di stupefacenti e alle gravidanze in età adolescenziale) sono stati incrociati con l’esposizione dei ragazzi a misure di protezione sociale come l’offerta di contanti, di mense scolastiche e trasporti gratuiti e di sostegno psicosociale.Ne è emerso che quando i sussidi in contanti sono abbinati ad altre forme di sostegno si assiste a una diminuzione del rischio di contrarre l’HIV pari a circa il 50%.Gli autori sono dunque convinti che fornire agli adolescenti l’accesso a programmi “cash plus care” (“contanti più cure”) possa rivelarsi una strategia tanto realistica quanto vincente per la prevenzione dell’HIV nell’Africa sub-sahariana.
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Criminalizzazione del sesso tra uomini deleteria per la salute pubblica
Ifeanyi Orazulike, dell’International Center for Advocacy on Rights to Health, durante il suo intervento ad AIDS 2014. Foto di Roger Pebody (aidsmap.com).Un’indagine internet globale su 4000 uomini che fanno sesso con altri uomini (MSM) rivela che un partecipante su 12 è stato arrestato o condannato per reati legati all’omosessualità, e che chi viene criminalizzato ha minore accesso ai servizi sanitari.Lo studio, condotto nel 2012, ha riscontrato che il 24% degli intervistati dell’Africa sub-sahariana erano stati arrestati o condannati per via del loro orientamento sessuale.Chi veniva arrestato o condannato aveva meno probabilità di accedere a preservativi, test e trattamento per le infezioni sessualmente trasmesse, test per l’HIV, cure mediche e servizi per la salute mentale.Negli uomini HIV-positivi, l’arresto o la condanna risultava associato con tassi inferiori di accesso alla terapia antiretrovirale.All’inizio del 2014, in Nigeria è stata approvata una dura legislazione anti-gay. Alla Conferenza è stato riferito che queste nuove leggi stanno già ostacolando il reclutamento di partecipanti per uno studio sulla salute e il comportamento degli MSM nel paese, e che ci sono stati arresti di operatori sociali attivi sul territorio.Secondo una dichiarazione dell’OMS rilasciata alla Conferenza, la tutela dei diritti umani è cruciale per tenere a bada l’epidemia da HIV. L’organizzazione raccomanda che:i Paesi si attivino per promulgare e attuare leggi anti-discriminazione;siano ovunque disponibili servizi sanitari accessibili e accettabili per gli MSM;si affronti e si combatta il problema della violenza contro gli MSM e si offrano programmi a sostegno di questa popolazione.
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PEP, bassi tassi di completamento dei cicli terapeutici
Percentuali di abbandono della PEP nelle varie fasi. Diagramma tratto dal poster di presentazione di Nathan Ford (TUPE153).Solo il 50% circa delle persone che iniziano un ciclo di PEP (profilassi post-esposizione) portano a termine il trattamento: è quanto emerge da una meta-analisi di 97 studi separati che hanno complessivamente coinvolto oltre 21.000 persone.La PEP consiste in un ciclo di trattamento della durata di 28 giorni con uno o più antiretrovirali che vengono somministrati a individui sieronegativi dopo una possibile esposizione al virus dell’HIV.L’intento dei ricercatori era determinare la percentuale di persone che portava effettivamente a termine il trattamento.Dai risultati emerge che da fase a fase c’è un progressivo abbandono del trattamento, con sbalzi marcati in alcuni passaggi. Complessivamente, infatti:il 14% delle persone considerate eleggibili per la PEP non hanno mai neppure iniziato il trattamento;solo il 57% di chi l’ha iniziato l’ha poi portato a termine;tra coloro che l’hanno portato a termine, il 31% non si è presentato alla visita di follow-up che prevede, tra l’altro, di effettuare il test per l’HIV.I tassi di completamento sono risultati particolarmente bassi tra le sex worker e tra coloro che avevano fatto ricorso alla PEP a seguito di una violenza sessuale.Secondo i ricercatori c’è ancora molto da fare per aumentare il ricorso alla PEP e migliorare i tassi di ritenzione in cura; inoltre sarebbe opportuno semplificare gli approcci terapeutici.
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Mercoledì 23 luglio 2014
Contenuti
Inadeguato l’investimento nella riduzione del danno per gli IDUCounseling di coppia per aumentare l’efficacia della TasP'Test a tappeto' altamente accettato nel Sudafrica ruraleCriminalizzazione del sesso tra uomini deleteria per la salute pubblicaPEP, bassi tassi di completamento dei cicli terapeuticiCarcinoma anale, notizie incoraggianti per i maschi omosessualiTrattamento dell’HIV, maraviroc non all’altezza del backbone NRTITubercolosi, accelerare diagnosi e trattamentoSostieni NAM
Inadeguato l’investimento nella riduzione del danno per gli IDU
Un’immagine del rapporto The funding crisis for harm reduction.L’investimento internazionale nella riduzione del danno per i consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva (IDU) è spaventosamente inadeguato, si è appreso alla Conferenza di Melbourne.Ai delegati è stato riferito che gli stanziamenti coprono attualmente solo il 7% di quanto sarebbe necessario per attuare interventi così importanti per una popolazione estremamente vulnerabile all’HIV e alle epatiti virali.Un’indagine internazionale ha rilevato che nel 2010 la somma destinata alla riduzione del danno è stata di 160 milioni di dollari statunitensi, vale a dire una piccolissima parte di quei 2,3 miliardi che servirebbero per fornire una copertura adeguata.Tra gli elementi fondamentali degli interventi di riduzione del danno per gli IDU si possono annoverare i programmi di scambio di siringhe, la terapia sostitutiva degli oppiacei, l’offerta di test e counseling per l’HIV e di terapia antiretrovirale, la distribuzione di preservativi, l’accesso a diagnosi e trattamento delle MST, delle epatiti virali e della tubercolosi.Eppure in 71 paesi al mondo non esistono programmi per lo scambio di siringhe, e in ben 81 non viene offerta la terapia sostitutiva.I dati sembrerebbero addirittura indicare che il finanziamento dei programmi di riduzione del danno sia progressivamente calato a partire dal 2010.Secondo Sir Richard Branson, membro della Commissione Globale per le politiche sulle droghe, si passa troppo tempo a mettere in prigione chi fa uso di stupefacenti, sprecando risorse che sarebbero meglio spese in interventi per l’educazione e nell’offerta di trattamento.Dalla Conferenza giunge un appello affinché l’investimento sulla riduzione del danno arrivi al 10% delle spese totali per le politiche antidroga entro il 2016.
Link collegati:
Resoconto completo su aidsmap.comScarica il rapporto sulla crisi dei finanziamenti alla riduzione del danno dal sito di Harm Reduction International
'Test a tappeto' altamente accettato nel Sudafrica rurale
L’autore principale dello studio, Francois Dabis, ad AIDS 2014. Foto di Gus Cairns (aidsmap.com).In uno studio in cui sono stati offerti a tappeto test e trattamento dell’HIV agli abitanti della provincia rurale del KwaZulu Natal è risultato che la popolazione locale accettava di buon grado il servizio che offriva di fare il test a domicilio; tuttavia, chi risultava positivo impiegava più tempo del previsto a iniziare il trattamento. Lo studio, denominato ANRS 12249, è uno dei vari trial in corso nell’Africa meridionale mirati a verificare l’ipotesi che i programmi di ‘test-and-treat’ universale possano, da soli, abbattere l’incidenza dell’HIV in modo sufficiente a porre fine all’epidemia.Nella fase pilota è stato rilevato che l’82% delle persone a cui veniva offerto di eseguire il test per l’HIV a casa accettava di farlo, un dato paragonabile a quello ottenuto da studi simili in altre parti dell’Africa. Il numero di persone che si rivolgevano alla clinica locale e intraprendevano il trattamento è invece stato inferiore al previsto: nel giro di un anno, hanno iniziato la terapia circa la metà di coloro che erano risultati positivi al test. Tuttavia, il linkage to care (‘aggancio ai trattamenti’) sembra svolgere un ruolo importante, dacché l’85% delle persone che hanno ricevuto il trattamento immediato poi iniziava la terapia nel giro di un anno.Questi dati sembrano indicare che i meccanismi di aggancio al sistema sanitario rappresenteranno un elemento chiave per il successo delle strategie di ‘test-and-treat’ per ampliare prevenzione e trattamento dell’HIV.
Link collegati:
Resoconto completo su aidsmap.comAbstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza
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Criminalizzazione del sesso tra uomini deleteria per la salute pubblica
Ifeanyi Orazulike, dell’International Center for Advocacy on Rights to Health, durante il suo intervento ad AIDS 2014. Foto di Roger Pebody (aidsmap.com).Un’indagine internet globale su 4000 uomini che fanno sesso con altri uomini (MSM) rivela che un partecipante su 12 è stato arrestato o condannato per reati legati all’omosessualità, e che chi viene criminalizzato ha minore accesso ai servizi sanitari.Lo studio, condotto nel 2012, ha riscontrato che il 24% degli intervistati dell’Africa sub-sahariana erano stati arrestati o condannati per via del loro orientamento sessuale.Chi veniva arrestato o condannato aveva meno probabilità di accedere a preservativi, test e trattamento per le infezioni sessualmente trasmesse, test per l’HIV, cure mediche e servizi per la salute mentale.Negli uomini HIV-positivi, l’arresto o la condanna risultava associato con tassi inferiori di accesso alla terapia antiretrovirale.All’inizio del 2014, in Nigeria è stata approvata una dura legislazione anti-gay. Alla Conferenza è stato riferito che queste nuove leggi stanno già ostacolando il reclutamento di partecipanti per uno studio sulla salute e il comportamento degli MSM nel paese, e che ci sono stati arresti di operatori sociali attivi sul territorio.Secondo una dichiarazione dell’OMS rilasciata alla Conferenza, la tutela dei diritti umani è cruciale per tenere a bada l’epidemia da HIV. L’organizzazione raccomanda che:i Paesi si attivino per promulgare e attuare leggi anti-discriminazione;siano ovunque disponibili servizi sanitari accessibili e accettabili per gli MSM;si affronti e si combatta il problema della violenza contro gli MSM e si offrano programmi a sostegno di questa popolazione.
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Resoconto completo su aidsmap.comAbstract di questa sessione sul sito ufficiale della Conferenza
PEP, bassi tassi di completamento dei cicli terapeutici
Percentuali di abbandono della PEP nelle varie fasi. Diagramma tratto dal poster di presentazione di Nathan Ford (TUPE153).Solo il 50% circa delle persone che iniziano un ciclo di PEP (profilassi post-esposizione) portano a termine il trattamento: è quanto emerge da una meta-analisi di 97 studi separati che hanno complessivamente coinvolto oltre 21.000 persone.La PEP consiste in un ciclo di trattamento della durata di 28 giorni con uno o più antiretrovirali che vengono somministrati a individui sieronegativi dopo una possibile esposizione al virus dell’HIV.L’intento dei ricercatori era determinare la percentuale di persone che portava effettivamente a termine il trattamento.Dai risultati emerge che da fase a fase c’è un progressivo abbandono del trattamento, con sbalzi marcati in alcuni passaggi. Complessivamente, infatti:il 14% delle persone considerate eleggibili per la PEP non hanno mai neppure iniziato il trattamento;solo il 57% di chi l’ha iniziato l’ha poi portato a termine;tra coloro che l’hanno portato a termine, il 31% non si è presentato alla visita di follow-up che prevede, tra l’altro, di effettuare il test per l’HIV.I tassi di completamento sono risultati particolarmente bassi tra le sex worker e tra coloro che avevano fatto ricorso alla PEP a seguito di una violenza sessuale.Secondo i ricercatori c’è ancora molto da fare per aumentare il ricorso alla PEP e migliorare i tassi di ritenzione in cura; inoltre sarebbe opportuno semplificare gli approcci terapeutici.
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Resoconto completo su aidsmap.com
Carcinoma anale, notizie incoraggianti per i maschi omosessuali
Andrew Grulich del Kirby Institute, Università del New South Wales, durante il suo intervento ad AIDS 2014. Foto di Liz Highleyman, hivandhepatitis.comDai primi risultati di uno studio australiano pare che potrebbe non essere necessario sottoporre a trattamento tutti i maschi omosessuali HIV-positivi che presentano lesioni in grado di progredire in carcinoma anale. Nella maggior parte dei casi, infatti, le lesioni scompaiono spontaneamente, e un attento monitoraggio può essere più efficace e meno invasivo del trattamento farmacologico o di un intervento chirurgico.Il carcinoma anale e i suoi precursori, la displasia e la neoplasia (anomala crescita cellulare e alterazioni dei tessuti), sono più frequenti nei pazienti HIV-positivi – soprattutto negli MSM – rispetto al resto della popolazione.In Australia è in corso uno studio su maschi omosessuali con e senza HIV mirato a stabilire la percentuale di uomini con displasia o neoplasia anale sviluppa poi il carcinoma. I risultati intermedi mostrano che le anomalie sono scomparse spontaneamente in quasi metà dei partecipanti, senza differenze in base all’età o allo stato sierologico.Questi risultati “rappresentano una prova convincente del fatto che non tutte le affezioni gravi della regione anale richiedano un intervento terapeutico e che pertanto il trattamento possa essere riservato a chi presenta lesioni molto persistenti”, ha commentato il dott. Andrew Grulich del Kirby Institute, Università del New South Wales. La maggior parte delle lesioni evidenziate da un singolo esame diagnostico “guariranno da sole”, ha aggiunto lo studioso.
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Trattamento dell’HIV, maraviroc non all’altezza del backbone NRTI
Un regime antiretrovirale in cui gli NRTI sono stati sostituiti dall’inibitore del co-recettore CCR5maraviroc (Celsentri) si è dimostrato meno efficace della terapia standard con emtricitabina e tenofovir (combinati nel Truvada), come dimostra un nuovo studio.La terapia dell’HIV consta generalmente di una combinazione di tre farmaci di tre diverse classi. I farmaci di ‘backbone’ (o di accompagnamento) sono nella maggior parte dei casi due inibitori nucleosidici o nucleotidici della trascrittasi inversa (NRTI). Gli NRTI sono tuttavia associati a molti degli effetti collaterali causati dal trattamento a lungo termine.Per questo un gruppo di ricercatori ha deciso di sperimentare la sostituzione degli NRTI con il maraviroc, un farmaco appartenente alla classe degli inibitori del co-recettore CCR5.Il maraviroc si è dimostrato buono sotto il profilo della sicurezza e ben tollerato in termini di effetti collaterali; inoltre ha una buona capacità di penetrazione nel tratto genitale, il che significa che il suo impiego potrebbe contribuire a prevenire la trasmissione del virus.Lo studio ha preso in considerazione pazienti che iniziavano per la prima volta il trattamento dell’HIV, che sono stati randomizzati per ricevere o il maraviroc o il Truvada in combinazione condarunavir potenziato con ritonavir (Prezista). Tutti i partecipanti (circa 800 in tutto) presentavano un ceppo di HIV sensibile al maraviroc.La sperimentazione doveva durare 96 settimane, e aveva come endpoint primario la percentuale di pazienti con carica virale non rilevabile alla 48° settimana.Arrivati a questo primo giro di boa, solo il 77% dei pazienti trattati con maraviroc aveva abbattuto la carica virale sotto la soglia di rilevabilità, contro l’87% di quelli trattati con Truvada. Il maraviroc ha conseguito i risultati più deludenti nei pazienti con cariche virali molto elevate (al di sopra delle 100.000 copie/ml).Lo studio è stato dunque interrotto, perché il maraviroc non si era dimostrato non-inferiore rispetto al Truvada.Il maraviroc resta comunque un possibile sostituto di un NRTI di backbone, per esempio per i pazienti che optano per uno switch terapeutico dopo aver ottenuto la soppressione della carica virale con la tradizionale terapia a base di NRTI.
Edited by silence® - 26/7/2014, 11:13