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CROI 2014

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silence®
view post Posted on 1/3/2014, 13:02     +1   -1




Si terrà dal 3 al 6 marzo a Boston, Stati Uniti, la 21° Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche (CROI 2014).
Il CROI è un congresso scientifico dove ricercatori e medici si danno appuntamento per scambiarsi informazioni sui loro studi e confrontarsi sui temi di maggiore attualità in materia di HIV. Quest’anno saranno presentati i risultati di nuove importanti ricerche nei seguenti ambiti:
* Nuovi farmaci per il trattamento dell’epatite C per pazienti con coinfezione, tra cui i regimi privi di interferone
* Nuove combinazioni farmacologiche per il trattamento dell’HIV
* Nuovi approcci al trattamento della tubercolosi nei pazienti affetti da HIV
* Rischio di trasmissione dell’HIV in coppie in cui il partner sieropositivo ha raggiunto la piena soppressione virale grazie alla ART
* Approcci in materia di ricerca di una cura per l’HIV
Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito ufficiale della Conferenza:www.croi2014.org

Su HivPlus, grazie ai bollettini in abbonamento di NAM AIDSMAP, le notizie più importanti provienti dal congresso.
 
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silence®
view post Posted on 6/3/2014, 13:17     +1   -1




Efficacia della ART nella prevenzione della trasmissione per via sessuale dell’HIV in partner omo- ed eterosessuali

Quante probabilità ha una persona con carica virale non rilevabile di trasmettere l’HIV al partner sessuale? “Per noi, la stima più attendibile è zero”, hanno dichiarato i ricercatori che hanno presentato i risultati dei primi due anni di uno studio, denominato PARTNER, che indaga la trasmissione del virus in coppie in cui un partner è sieropositivo e l’altro no.
Per i risultati finali dello studio bisognerà attendere il 2017, ma fino ad adesso nelle coppie partecipanti non si è verificata nessuna trasmissione da parte di un partner sieropositivo con carica virale sotto la soglia di rilevabilità
.
Lo studio PARTNER è ancora in corso
e per ora ha arruolato un totale di 1110 coppie sierodiscordanti, di cui quasi il 40% sono coppie omosessuali.
Tali risultati vanno a confermare ed integrare quelli dello studio HTPN 052, in cui era stata osservata una diminuzione delle trasmissioni pari al 96% quando il partner sieropositivo della coppia iniziava precocemente il trattamento
. Le coppie prese in considerazione in quel caso erano prevalentemente eterosessuali.
Nel follow-up dello studio PARTNER, tutti i partner eterosessuali sieronegativi hanno riferito di aver praticato sesso vaginale senza preservativo, con eiaculazione nel 72% dei casi. Quanto alle coppie omosessuali, ha dichiarato di aver praticato sesso anale ricettivo senza preservativo il 70% dei partner sieronegativi, con eiaculazione nel 40% dei casi; mentre il 30% di loro ha dichiarato di aver avuto solo rapporti insertivi. Peraltro, ha riferito di aver praticato sesso anale anche una percentuale significativa delle coppie eterosessuali.
Secondo le stime degli autori, dall’inizio dello studio le coppie omosessuali hanno avuto complessivamente 16.400 rapporti sessuali e quelle eterosessuali 14.000.
Non è stato attestato alcun caso di trasmissione dell’HIV nelle coppie in cui il partner sieropositivo aveva una carica virale
inferiore alle 200 copie/ml.
L’analisi statistica ha evidenziato che, se la carica virale non è rilevabile, il rischio di trasmissione diminuisce del 99,5% in caso di sesso vaginale e del 99% in caso di sesso anale (del 96% quando c’è eiaculazione).
I ricercatori, tuttavia, sono convinti che in realtà l’efficacia del trattamento come prevenzione si attesti praticamente sul 100%, anche se – come hanno sottolineato i principali autori dello studio – probabilmente non sarà mai possibile dimostrare con certezza matematica che il rischio di trasmissione da parte di una persona che assume una ART efficace sia completamente azzerato.



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Trattamento dell’epatite C nei pazienti con coinfezione HCV-HIV
L’impiego dell’inibitore della proteasi di nuova generazione simeprevir ("Olysio") per il trattamento del virus dell’epatite C (HCV) ha mostrato un tasso di successo del 79% in pazienti con coinfezione HCV/HIV che si sottoponevano per la prima volta alla terapia anti epatite C.

È il risultato di uno studio in cui è stato somministrato simeprevir in combinazione con interferone pegilato e ribavirina su 106 partecipanti, tutti con HCV di genotipo 1, nessuno dei quali presentava cirrosi epatica. Di questi, 53 erano pazienti naive allaterapia anti-HCV
, ossia era la prima volta che vi si sottoponevano.
Principale criterio di valutazione dello studio era il raggiungimento di una risposta virologica sostenuta ("Sustained Virological Response", SVR) a 12 settimane dal termine del trattamento. Ad ottenerla sono stati complessivamente il 74% dei partecipanti, e nello specifico il 79% dei pazienti naive e oltre il 50% di quelli che precedentemente non avevano risposto al trattamento standard, la terapia duplice con interferone e ribavirina.
Sono inoltre risultati predittivi di esito positivo il genotipo 1 e uno stadio non avanzato di fibrosi epatica.
Quanto agli effetti collaterali, i più frequenti sono stati cefalea, eruzioni cutanee e nausea.
In uno studio separato si è ottenuto un tasso di successo del 75% in pazienti con coinfezione HCV/HIV trattati con l’inibitore della proteasi faldaprevir in combinazione con interferone pegilato e ribavirina
.
I partecipanti erano 308 pazienti coinfetti, tutti con HCV di genotipo 1. Al basale, il 95% presentava livelli di carica virale non rilevabili; la conta dei CD4
media era invece di 540 cellule/mm3.
Per evitare interazioni farmacologiche, il dosaggio del faldaprevir è stato ricalibrato in base agli antiretrovirali assunti nei pazienti trattati con un inibitore della proteasi
,efavirenz
("Sustiva") o raltegravir
("Isentress").
Anche in questo caso il principale criterio di valutazione era il raggiungimento di una risposta virologica sostenuta a 12 settimane dal termine del trattamento, obiettivo centrato complessivamente dal 71-72% dei partecipanti. Come nel caso di altre terapie anti-HCV, il successo del trattamento è risultato correlato al genotipo dell'Interleuchina 28B (IL28B
); 88% per il genotipo CC e 64% per il genotipo non-CC.
Gli effetti collaterali più comuni sono stati nausea, diarrea, cefalea, sensazione di spossatezza e di debolezza. In un quinto dei partecipanti sono stati anche registrati aumenti dei valori della bilirubina.
In uno studio è stato somministrato per 24 settimane un trattamento privo di interferone a base di sofosbuvir ("Sovaldi") più ribavirina a pazienti con coinfezione HCV/HIV naive al trattamento contro l’epatite C e con HCV di genotipo 1, ottenendo una risposta virologica sostenuta (SVR) nel 75% dei partecipanti.
Non è invece risultata altrettanto efficace la somministrazione dello stesso regime per 12 settimane a pazienti con HCV di genotipo 3.
Per lo studio, denominiato PHOTON-1, sono stati arruolati 114 pazienti con HCV di genotipo 1 che non si erano mai sottoposti a terapia anti-HCV in precedenza, ossia, appunto, pazienti naive. I partecipanti hanno assunto per 24 settimane 400mg di sofosbuvir una volta al giorno, più 1000/1200mg di ribavirina a seconda del peso corporeo. Allo studio hanno partecipato anche pazienti con genotipo 2 o 3, dei quali 68 erano pazienti naive e 41 invece erano "non-responder", ossia si erano precedentemente sottoposti a terapia anti-HCV senza successo. I pazienti naive hanno assunto sofosbuvir e ribavirina per 12 settimane, mentre i "non-responder"per 24.
I pazienti naive con genotipo di tipo 1 hanno ottenuto una risposta virologica sostenuta dopo 12 settimane dal termine del trattamento nel 76% dei casi. Uno solo presentava una carica virale di HCV ancora rilevabile dopo aver completato il trattamento, il che abbassa al 75% il tasso di SVR a 24 settimane; tuttavia potrebbe trattarsi di un caso di reinfezione, piuttosto che di recidiva. Nei pazienti con genotipo 2 trattati per 12 settimane, i tassi di SVR a 12 e 24 settimane sono risultati entrambi dell’88%. Nei pazienti con genotipo 3, invece, non si è superato il 67%.

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Workshop della comunità sulla ricerca di una cura per l’HIV: dove si nasconde il virus?

Society (IAS) che altri due pazienti
sembravano aver ottenuto una cura funzionale attraverso un trapianto di midollo osseo, proprio come Timothy Ray Brown
.
A dicembre, la delusione: in entrambi i cosiddetti ‘pazienti di Boston’, dopo diversi mesi in cui la carica virale era rimasta azzerata malgrado non assumessero la ART, l’HIV è tornato rilevabile. Tutti i dettagli saranno presentati nel corso della Conferenza, ma si aprono degli interrogativi a cui urge dare risposta: da dove proviene l’HIV ricomparso, perché ci ha messo tanto a tornare rilevabile, come si possono eliminare o almeno tenere sotto controllo i piccoli reservoir che si annidano in questi pazienti.

Resoconto completo degli argomenti qui www.aidsmap.com/croi2014
 
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*Loris*
view post Posted on 6/3/2014, 21:20     +1   -1




CITAZIONE (silence® @ 6/3/2014, 13:17) 
da dove proviene l’HIV ricomparso, perché ci ha messo tanto a tornare rilevabile, come si possono eliminare o almeno tenere sotto controllo i piccoli reservoir che si annidano in questi pazienti.

Resoconto completo degli argomenti qui www.aidsmap.com/croi2014

ricordo di avere letto di uno dei due pazienti che era tornato con viremia rilevabile, mi ero perso che pure per il secondo era andata nello stesso modo. di sicuro c'è solo che sto virus è davvero una gran brutta bestia.
 
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silence®
view post Posted on 7/3/2014, 11:14     +1   -1




Il trattamento: antiretrovirali di prima linea

Storicamente, nelle linee guida per il trattamento dell’HIV si raccomanda una combinazione di antiretrovirali di cui due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI) più un terzo farmaco di classe diversa, per esempio un inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa (NNRTI) o un inibitore della proteasi.
Gli NRTI, però, in alcuni pazienti causano effetti collaterali o possono rivelarsi tossici. L’avvento di nuove classi di antiretrovirali consente maggiore margine per elaborare regimi terapeutici privi di questi farmaci.
Alla Conferenza è stato presentato uno studio in cui si è sperimentato su pazienti che non avevano mai assunto il trattamento dell’HIV un regime privo di NRTI, composto da raltegravir ("Isentress") più darunavir potenziato ("Prezista"): la combinazione è risultata efficace quanto un regime a base degli NRTI tenofovir e FTC (i principi contenuti nel "Truvada")
.
La sperimentazione, condotta in 15 diversi paesi europei, ha interessato 805 pazienti sieropositivi naïve al trattamento. I partecipanti sono stati randomizzati per assumere o 400mg di raltegravir due volte al giorno oppure il "Truvada "una sola volta al giorno, sempre in associazione con darunavir potenziato con ritonavir. Il follow-up è stato di 96 settimane.
Tra i criteri adottati dai ricercatori per definire il fallimento terapeutico sono stati inclusi parametri come lo switch terapeutico dovuto a una risposta insufficiente prima della 32° settimana e una carica virale superiore alle 50 copie/ml dopo la 32 settimana. A 96 settimane dall’inizio del trattamento, in base a questi criteri, il raltegravir si è dimostrato non inferiore al "Truvada. "La percentuale di rispetto di tali criteri si è attestata al 17% per il braccio del raltegravir e 14% per il "Truvada, "ma non si tratta di uno scarto statisticamente rilevante.
Sulla base di questi risultati, gli autori hanno concluso che il regime composto da raltegravir più darunavir/ritonavir “può rappresentare un’alternativa” a quelli composti da tenofovir/FTC più darunavir/ritonavir.

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Il trattamento: nuove classi di farmaci

Il trattamento anti-HIV si compone di farmaci di diverse classi, che vanno a interferire con il ciclo vitale del virus nei suoi diversi stadi. Ancora non esiste però un farmaco specifico per il primissimo stadio, ossia che impedisca al virus di agganciarsi alla cellula ospite.
Alla Conferenza si è parlato di una terapia combinata che impiega un nuovo inibitore dell’aggancio, e che si è dimostrata discretamente sicura ed efficace. Si profila così la possibilità di elaborare in futuro una nuova classe di antiretrovirali che potrebbe giovare particolarmente ai pazienti con significative resistenze ai farmaci disponibili
.
L’inibitore attualmente noto come BMS-663068 è stato sperimentato in un trial multinazionale condotto su 253 pazienti che in precedenza si erano già sottoposti al trattamento. I partecipanti avevano una conta dei CD4 mediana attorno alle 230 cellule/mm3, e molti arrivavano da un fallimento terapeutico con un trattamento di prima o seconda linea.
Circa la metà presentava un ceppo di HIV con almeno una grave mutazione genetica che lo rendeva farmacoresistente; per la sperimentazione, però, il virus doveva essere ancora suscettibile a raltegravir ("Isentress"), tenofovir ("Viread"; presente anche in alcune co-formulazioni) e atazanavir ("Reyataz").
I partecipanti sono stati randomizzati in cinque gruppi: quattro che assumevano il farmaco oggetto della sperimentazione, in diversi dosaggi; e un gruppo di controllo che assumeva invece atazanavir potenziato con ritonavir. Tutti e cinque i gruppi assumevano inoltre raltegravir e tenofovir.
Alla 24° settimana dall’inizio del trattamento, tutti e cinque gruppi hanno ottenuto risultati simili: sono riusciti ad abbattere la carica virale al di sotto delle 50 copie/ml l’80% di quelli che assumevano l’inibitore con un dosaggio di 400mg due volte al giorno; il 69% di quelli che assumevano 800mg due volte al giorno; il 77% di quelli che assumevano 600mg una volta al giorno; e il 72% di quelli che assumevano 1200mg due volte al giorno; nel braccio di controllo con atazanavir la percentuale è stata del 75%.
Il BMS-663068 si è dimostrato generalmente ben tollerato ad ogni dosaggio, e non sono stati rilevati problemi circa la sua sicurezza.

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HIV e sopravvivenza al tumore

Un nuovo studio proveniente dagli Stati Uniti dimostra che nelle persone sieropositive la mortalità per tumore è
più alta che in quelle sieronegative.
Gli autori non hanno saputo indicare con precisone per quale motivo, ma ritengono che si possa in parte ricollegare a fattori come le disuguaglianze in termini di assistenza sanitaria e un effetto HIV-correlato.
Oggi molte persone sieropositive possono sperare di avere una normale aspettativa di vita
. Ma studi precedenti avevano già evidenziato come i tassi di incidenza di alcuni tumori
non-AIDS correlati risultassero più elevati nella popolazione sieropositiva.
Gli autori di questo studio hanno dunque cercato di stabilire se l’HIV incidesse sulla sopravvivenza di un paziente a cui viene diagnosticato un tumore.
A questo scopo hanno raffrontato i tassi di sopravvivenza tra pazienti sieropositivi e -negativi a cui era stato diagnosticato un tumore tra 14 molto comuni: quello dell'orofaringe, del colon-retto, dell’ano
, del fegato
, del pancreas, della laringe, delpolmone
, della pelle (melanoma), della mammella, della cervice
uterina, della prostata, del rene e delle vie urinarie, linfoma di Hodgkin e linfoma diffuso a grandi cellule B
.
I tassi di mortalità dei pazienti sieropositivi sono risultati più elevati in nove di questi tumori. In particolare, del 270% per il tumore alla mammella, dell’80% per quello alla prostata e del 25% per quello al polmone.
Il motivo? Forse procedure di screening non adeguate e il basso tasso di presa in carico e inizio delle cure. Si è inoltre ipotizzato che tra le possibili cause possano annoverarsi anche una più scarsa risposta alla chemioterapia e l’interruzione delle cure per l’HIV.

resoconto completo su www.aidsmap.com/croi2014
 
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silence®
view post Posted on 8/3/2014, 08:47     +1   -1




Terapia genica

I linfociti T-CD4 geneticamente modificati per neutralizzare i co-recettori CCR5 si sono dimostrati in grado di raggiungere alte concentrazioni nel sangue e di resistere all’attacco dell’HIV: potenzialmente, dunque, consentirebbero ai pazienti sieropositivi di tenere bassa la carica virale quando non assumono la ART. È quanto emerge dagli ultimi studi di valutazione delle cosiddette tecnologie a dita di zinco
.
Si tratta di una tecnica che si serve di un enzima chiamato nucleasi a dita di zinco ("zinc finger nuclease", o ZNF) per inattivare il gene dei linfociti CD4 responsabile dell’espressione del co-recettore CCR5, a cui si aggancia la maggior parte dei ceppi di HIV per infettare le cellule.
La procedura prevede di raccogliere campioni di linfociti CD4 da pazienti sieropositivi, per poi modificarli in laboratorio con le nucleasi a dita di zinco e farli proliferare in coltura
. Le cellule modificate, denominate SB-728-T, vengono infine re-infuse nel paziente da cui provengono: l’HIV continua a distruggere i linfociti non modificati, ma queste cellule resistenti all’infezione sono immuni e sopravvivono.
Già in passato gli scienziati avevano valutato questa tecnica come sicura e generalmente ben tollerata dai pazienti
.
Uno studio presentato al CROI ha valutato l’impatto di un trattamento preliminare con un agente chemioterapico, la ciclofosfamide, prima della re-infusione delle cellule geneticamente modificate.
I 12 pazienti che vi hanno preso parte assumevano tutti la ART all’inizio dello studio, e tutti presentavano elevate conte di CD4 e carica virale non rilevabile.
A ognuno dei partecipanti è stata inoculata ciclofosfamide per via endovenosa, in dosi di 200, 500 o 1000mg/m2 somministrate da uno a tre giorni prima di ogni infusione di cellule modificate. Sei settimane dopo, i pazienti hanno sospeso l’assunzione di antiretrovirali.
La ciclofosfamide si è dimostrata generalmente sicura e ben tollerata. Sono aumentate sia la conta complessiva dei CD4 che le copie di linfociti modificati, a seconda del dosaggio somministrato; l’aumento più consistente si è osservato nel gruppo che assumeva 1000mg. I pazienti che hanno ricevuto il farmaco a dosaggio più alto sono anche quelli che hanno registrato maggiori diminuzioni della carica virale HIV durante la sospensione della ART.
Gli autori hanno spiegato che con il dosaggio a 1000mg ci si avvicinerebbe alla soglia per una cura funzionale.

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Trattamento anti-HIV: il raltegravir
Dai risultati di uno studio emerge che l’inibitore dell’integrasi raltegravir ("Isentress") sarebbe superiore, in termini di probabilità complessiva di fallimento terapeutico, rispetto ai due inibitori della proteasi potenziati con ritonavir atazanavir ("Reyataz") e darunavir ("Prezista")
.
Lo studio ha coinvolto 1809 pazienti sieropositivi naive al trattamento, che sono stati randomizzati in tre gruppi per ricevere: o il raltegravir; o l’atazanavir potenziato con ritonavir; oppure il darunavir potenziato con ritonavir. Tutti e tre i farmaci sono stati assunti in associazione a tenofovir e FTC (co-formulati nel "Truvada"), e i progressi dei partecipanti sono stati monitorati per un lasso di tempo di 96 settimane.
Alla 96° settimana, erano riusciti ad abbassare la carica virale al di sotto delle 50 copie/ml l’88% dei pazienti nel braccio dell’atazanavir, il 94% di quello del raltegravir e l’89% di quello del darunavir.
Se in termini di fallimento virologico non si sono registrate differenze cospicue tra i tre gruppi, c’è però da considerare che molti più pazienti hanno dovuto sospendere il trattamento con gli altri due farmaci a causa principalmente dell’insorgenza di problemi gastrointestinali (sia nel braccio dell’atazanavir che in quello del darunavir) e di itterizia (nel braccio dell’atazanavir).
Si tratta di risultati di cui probabilmente si terrà conto la prossima volta che saranno riviste le linee guida sul trattamento.

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Delusione sul fronte della ricerca di una cura

Questo dimostra quanto sia difficile raggiungere la cosiddetta cura funzionale dell’HIV se rimane anche la più piccola quantità di virus nell’organismo.
Entrambi gli uomini, chiamati anche i ‘pazienti di Boston’, dopo il trapianto erano riusciti per un periodo a tenere a bada il virus senza farmaci. Del caso si era discusso alla Conferenza dell’International AIDS Society l’anno scorso.

Ora però il virus è tornato rilevabile in tutti e due, dodici settimane dopo l’interruzione del trattamento
per l’uno e otto mesi dopo per l’altro.
Appena tornato rilevabile, l’HIV ha iniziato a replicarsi molto rapidamente: la carica virale
di entrambi i pazienti ha presto raggiunto milioni di copie/ml. Inoltre, i due hanno accusato sintomi in genere osservati nei pazienti che hanno appena contratto l’infezione
.
Tutti e due gli uomini hanno dunque ricominciato la ART: uno, però, nel frattempo aveva sviluppato una mutazione che lo rendeva resistente
agli NNRTI e ha dovuto quindi cambiare
la terapia. Con il trattamento i due pazienti hanno raggiunto la piena soppressione virale, i sintomi sono scomparsi e la conta dei CD4
è tornata a salire.
La causa più probabile della ricomparsa del virus è che fosse annidato in qualche reservoir di lunga durata. Dall’analisi genetica, il virus risultava molto simile, il che fa pensare che basta che sopravvivano poche cellule per causare un completo rebound virologico appena si sospende la terapia.
La delusione è innegabile, ma va ricordato che da questi due casi si possono ricavare importanti informazioni sulla persistenza del virus, che saranno comunque utili nella ricerca di una cura funzionale.

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